I migliori anni della nostra vita by Ernesto Ferrero

I migliori anni della nostra vita by Ernesto Ferrero

autore:Ernesto Ferrero [Ferrero, Ernesto]
La lingua: ita
Format: epub
Tags: Biografie
editore: Feltrinelli
pubblicato: 2012-02-20T22:38:12+00:00


Il risotto dell’Ingegnere

L’Editore voleva quel premio con l’intransigenza che metteva nelle imprese che gli stavano veramente a cuore. Non credo avesse mai letto Gadda, ma sapeva della sua grandezza al suo solito modo infallibile. Dunque La cognizione del dolore, ricomposta da Roscioni e presentata da Contini, doveva avere il Prix International de Littérature, il prestigioso riconoscimento che sei editori europei e uno americano assegnavano a maggio nell’isola di Corfù, dopo aver lasciato l’isola di Formentera, nelle Baleari, dove il premio era nato, perché il regime aveva negato il visto d’ingresso all’Editore, colpevole d’una pubblicazione antifranchista di canti popolari.

L’Editore aveva iniziato per tempo sottili manovre diplomatiche.

Il suo Talleyrand era Vittorini, che si beava del gran romanzo gaddiano con la grazia sensuale che riversava sui libri che gli erano cari. Vittorini era insieme mistico e carnale, guru distaccato e leader politico, sacerdote buddhista e commissario delle brigate internazionali. Era Trotzkij e Milarepa.

Adesso brandiva La cognizione come il Santo Graal che avrebbe redento la letteratura mondiale, riscattando le masse dei piccolo-borghesi della scrittura in una palingenesi che era insieme civile e letteraria. Inventava le sue immagini critiche con lo slancio di un copywriter di talento. Diceva che Gadda rappresentava la letteratura arteriosa, quella che porta ossigeno al lettore; Nabokov, il suo grande avversario, incarnava invece la letteratura venosa, carica di scorie, greve di tutte le impurità della vita. Gadda era un avanguardista, un rivoluzionario travestito da borghese; Nabokov era il simbolo di un manierismo estenuato e decadente, quasi un transfuga “bianco” passato in Occidente, untore capace di spargere ovunque le spore di un male tanto più pernicioso quanto più indecifrabile.

Le giurie nazionali che si affrontavano nella disadorna sala incontri di quell’albergo sul mare erano gremite di fuoriclasse.

Leader indiscusso della nazionale italiana era Alberto Moravia, sempre elegante nei suoi pullover, il foulard annodato al collo con una grazia amabilmente trasandata; sempre con le rughe di un pensiero difficile a solcargli la fronte, ad abbassargli la spalla in un tic, a contrargli la bocca in una smorfia. Gli era accanto Dacia Maraini, che aveva appena vinto il premio speciale riservato agli esordienti. Dicevano i maligni che l’anno prima, nella discussione con gli altri editori per sostenerla Moravia aveva buttato sulla bilancia tutto il peso della sua autorevolezza. Gli altri avevano creduto alle qualità di quel romanzo così disadorno, così moraviano; o avevano ceduto. Adesso Dacia era lì, con i suoi vaporosi chemisier a righe azzurre, con le sue efelidi, bionda e celeste. La sua timidezza di jeune fille rangée avrebbe ammansito il più malevolo dei detrattori. (Qualche mese più tardi arrivò a Calvino - incolpevole - una quartina anonima che diceva: “O disonesto - scrutator Calvino a un letterario broglio il capo hai chino avallando la Musa di Moravia / re della noia e anche dell’ignavia”.)

Gli editori furono garbatamente galanti, con Dacia. In quel maggio greco, fermo in una luce atemporale, i campi gialli di fiori dai bottoni dorati, il mare mansueto che sciacquava tra gli ulivi, Dacia aveva il colore e l’indefinibile sorriso di una kore.



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